
Raccontare gli attacchi di panico per me è stato come “mettermi a nudo”. Parlare di sé stessi in una maniera molto intima, svelare una parte di sé che tanti neanche immaginano…soprattutto per una persona che è sempre di buonumore, sorridente, che ha un consiglio buono per tutti.
Ricordo quello strano senso di peso sul cuore o alla bocca dello stomaco, sul quale ci si focalizza 2 minuti, poi 10, poi 30 minuti, poi ore, convinti di avere qualcosa che non va. Fino ad arrivare a pensare che sì, sicuramente c’è qualcosa che non va in noi, che quel malessere viene dal cuore o dallo stomaco o dall’intestino. E cercare a tutti i costi quel qualcosa che non va, che in realtà non c’è, non esiste, se non nella mia testa.
Provare a raccontare agli altri queste sensazioni non è mai stato facile. Perché “no, dai, ti stai fissando”, “sono tutte fisime”, “stai diventando ipocondriaca”. Tutte parole che invece di aiutarmi in quei momenti complicati, diventavano piccole coltellate che aprivano di più quelle ferite, senza speranza che si rimarginassero.
Allora cercavo di farmi forza da sola, affrontavo le mie paure, uscivo e mentre parlavo o ridevo assieme agli altri, quasi di nascosto col dito sul polso restavo ad “ascoltare” il cuore. A sentire se c’era qualcosa che non andava. E accadeva sempre che qualche battito fuori posto, alla fine cominciava a battere all’impazzata, veloce, forte, fortissimo, come quando da ragazzina vedevo il ragazzo che mi piaceva.
Ma non c’era nessun ragazzo e nel silenzio assordante della notte, mentre la città intera dormiva, in un buio ed in una solitudine più accentuata, tutto diventava più difficile: mi alzavo, cercavo di respirare con calma e di distogliere i pensieri negativi… finché il cuore tornava a battere come sempre. Ed io, stremata da quelle palpitazioni forti, tornavo a dormire sperando che arrivasse presto la mattina, quando la luce e la compagnia degli altri mi avrebbero fatto sentire un po’ più al sicuro.
Per non parlare di quando viaggiavo o andavo ad un concerto e la mia testa piena di mille paure mi risucchiava in timori infondati e pensieri assurdi. Arrivavo a chiedermi quanto fosse vicino un ospedale. O se ci sarebbe stato qualcuno pronto ad intervenire per aiutarmi se mi fossi sentita male.
Ricordo che questo accadeva talvolta anche in macchina, da sola, quando improvvisamente, senza alcun motivo reale, sentivo i battiti che aumentavano in maniera esponenziale, ma imperterrita proseguivo perché “passerà”, mi dicevo. Sempre se non mi schianto, se non svengo, se non muoio in macchina.
Questa è stata la mia esperienza con gli attacchi di panico.
Fino a quando non ho scoperto una piccola luce in fondo al tunnel: la terapia cognitivo-comportamentale, che mi ha aiutato a indagare sulle cause che mi portavano a stare così, a superarle, a distogliere la mente dai cattivi pensieri, dal circolo vizioso della “paura della paura”, da ciò che non mi faceva più vivere la vita, limitandola, condizionandola.
Ecco, devo dire grazie a loro, a questo gruppo di dottoresse fantastiche, se oggi posso ritenermi forte.
Nessuna medicina, nessuna cura, se non quella delle parole. Che mi hanno aiutato a recuperare la forza in fondo al cuore. La stessa che oggi, a distanza di 6 anni, con maggiore consapevolezza mi aiuta ad affrontarli e superarli.
Se c’è una cosa di cui sono fiera è che ho imparato a non nascondere più le mie debolezze, i difetti e i limiti. Sono fiera perché non ho più timore di dire agli altri che sono stata dallo psicologo senza la paura di sentirmi chiamata “malata”. Credo che dovremmo imparare a farlo più stesso.
Insieme al dare peso a ciò che ci circonda, a chiedere aiuto nel modo giusto. Perché la vita, anche se difficile, è una sola. E dovremmo sempre sforzarci di trovare il modo di tornare a sorridere senza “tenersi il battito” dentro.
Vivere per davvero. Rinascere.